La spoon river dell’ex Rumianca è ormai quasi al capolinea, purtroppo. Di circa settecento lavoratori, ne sono rimasti non più di una ventina: moltissimi falcidiati dai tumori.
L’ultima vittima è l’ex capoturno, Nino Giusti: stroncato da un tumore al peritoneo, era un grande appassionato di cani. Fu mandato in pensione a poco più di 50 anni, quando nell’84 ci fu l’incidente che portò alla chiusura definitiva dell’azienda dei veleni, tuttora sbarrata in attesa di bonifica.
Di Nino Giusti e dell’inferno dell’ex Rumianca tornano a parlarci i fratelli Vittorio e Giancarlo Manici: entrambi ex Rumianca, due anni fa, subito dopo l’uscita del libro esplosivo di Gianluca De Feo dell’Espresso “Veleni di Stato” – nel quale si riportava il contenuto degli archivi dei servizi segreti britannici, secondo i quali nello stabilimento avenzino vi sarebbero stati depositi del devastante gas tossico Diphosgene – uscirono allo scoperto, per denunciare con forza: «A neppure 40 anni, per quei diserbanti che ci bruciavano la bocca e le gengive, abbiamo perso tutti i denti».
E il loro genitore, colpito da tumore alla gola, era morto a soli 49 anni: lavorava all’arsenico. Giancarlo, 63 anni, e Vittorio Manici, 70 anni poche settimane fa hanno ricevuto la visita della vedova del loro ex capoturno, per sottoscrivere la dichiarazione che era un loro compagno di lavoro. «Per il momento – spiega la signora Luisa – abbiamo attivato la pratica per il riconoscimento di malattia professionale attraverso il sindacato, ma siamo pronti anche a fare causa».
«Sono passati più di due anni da quando abbiamo denunciato pubblicamente quello che succedeva in quella fabbrica e nessuno ci ha cercato, né la magistratura, né le pubbliche amministrazioni – intervengono Vittorio e Giancarlo – Abbiamo anche letto che ci sono stati altri studi sulla nostra ex zona industriale e sul territorio, ma quello che accadeva lì dentro era tremendo».
Quasi tutti morti
Il conto delle vittime è spaventoso: «Nel momento della maggiore espansione, eravamo in settecento, comprese le ditte; abbiamo fatto il triste censimento e non ne sono sopravvissuti più di venti, contando gli elettricisti, gli addetti alle officine, e comunque quelli che non erano a contatto con le lavorazioni più pericolose».
Nella dichiarazione che hanno sottoscritto per la signora Luisa, vedova Giusti, hanno dichiarato di essere stati alle dipendenze della Rumianca e delle società che si sono succedute, e di essere testimoni che il loro ex capoturno, ha lavorato in tutti i reparti dove si sono prodotti gli antiparassitari agricoli (Rame, Ziram, Antene), i diserbanti con diossine (Acido 2-4d), e gli insetticidi e gli esteri fosforici (Ddt, Metil Pharathion, Etil Pharathion). Nino Giusti è stato per 37 anni in Rumianca.
Giancarlo Manici invece ci ha lavorato dal 1970 fino al 1984; Vittorio dal 1961 all’83 («ma in realtà al lavoro sono entrato nel 60, mi hanno registrato l’anno dopo»), operai addetti un po’ a tutto, anche al diserbante Olgran per le risaie: «Lo caricavamo a spalle». Ricordano ancora: «Al sabato quando andavamo al cinema o a ballare, venivamo allontanati come appestati, nessuno si poteva avvicinare per l’odore; ci lavavamo anche l’aceto, ma non si riusciva a mandare via la puzza. L’Olgran aveva l’odore del Ddt, quando poi lavoravamo all’Antirazur, il colore non andava mai via, la notte macchiavano i lenzuoli di blu. La mezz’ora per fare il bagno era pagata, ma la puzza non andava via. Nonostante le saponette profumate che ci passavano». «Facevamo anche il tomatone – ricordano – a base di ormoni, ormai eravamo assuefatti dalla puzza, ma gli altri ci dicevano che era insopportabile». Da diciassette anni, i due fratelli provano a vedersi riconosciuti i benefici del contatto con l’amianto: «C’era pieno anche di quello». Ma per ora, senza risultato.